NICOLA VERLATO

In viaggio su un semplice vagone proletario Intercity come forse direbbe borioso Elkann, ma senza il suo percettibile fastidio per i lanzichenecchi, torno a casa percorrendo ormai chilometri da giorni. Prima l’Egitto, poi la mia terra d’origine, il Corano da leggere come inizio di un percorso di avvicinamento e unione ad una cultura più vicina a noi di quanto neanche si immagini, e la difficile convergenza artistica tra l’aniconismo musulmano e la nostrana esposizione di corpi.

Tolto di mezzo l’analfabetismo di chi professa un’ortodossia scevra dalla spiritualità sufica, ignoranza tanto amata dal multiculturalismo speculativo e dai nostrani lacchè pronti a inscatolare la millenaria civiltà mediterranea, la battaglia libertaria rimane da giocarsi in casa occidente, forse più con i puritani iconoclasti europei di calvinista memoria in quel passaggio tra separazione cinquecentesca dalla chiesa cattolica e la ventata di cancel colture che da anni recenti sta investendo l’Occidente.

Per approfondire questa riflessione non potevo non contattare a mio avviso uno dei migliori pittori manieristi contemporanei ovviamente in antitesi all’abiura dell’immagine, condividendone la spinosa questione, così dopo qualche messaggio e una telefonata che ha rispolverato la mia fascinazione per il suo lavoro scoperto alla quadriennale romana del lontano 2008, eccovi l’intervista al maestro Nicola Verlato:

Ho visto la mostra del tuo progetto itinerante “Hostia” presso la Cappella Palatina del Maschio Angioino a Napoli, l’ho fatto assieme a mia figlia perché sono fortemente convinto che ci sia bisogno di una rieducazione alla figurazione partendo dai più piccoli, ai quali manca tale alfabetizzazione. Essendo anche tu padre, credi che tale impegno debba rimanere una confinata azione genitoriale, o visto il cospicuo patrimonio culturale che l’Italia custodisce deve essere obiettivo prioritario governativo in ambito educativo, superiore per impegno al riformismo oggi in campo per la cosiddetta Scuola 4.0?

Prima di tutto grazie per aver portato tua figlia a vedere la mostra, spero che le sia piaciuta!

Ovviamente credo che la scuola dovrebbe integrare ciò che alcuni genitori già fanno per il loro figli, ma che anche serva a introdurre ai bambini l’esperienza dell’arte classica quando i genitori non sono in grado di fare ciò. Per fortuna, anche passivamente, nelle città italiane, questo avviene automaticamente, nel senso che essendo stata in gran parte l’arte figurativa ad aver dato forma allo spazio cittadino (pensiamo a sculture e monumenti pubblici, chiese contenenti capolavori a profusione, affreschi sulle facciate dei palazzi) siamo continuamente esposti al potere di queste opere.

Quello che dovrebbe fare la scuola è di rimarcare l’eccezionalità del caso italiano, la centralità della figura dipinta e scolpita nella nostra cultura e cosa questo fatto implica in termini di convivenza sociale, benessere psico-fisico individuale e ricchezza spirituale. Io sono vissuto per molto tempo negli Stati Uniti, e l’arte in quel luogo la si può vedere quasi esclusivamente nei musei (come in molti altri paesi europei e non) con conseguenze negative enormi sia per gli individui che per le società che vivono in luoghi completamente spogli di ogni presenza simbolica. Teniamoci care il più possibile le nostre radici figurative dell’arte pubblica, millenarie, anche perché sono convinto che contribuiscano ad allungarci la vita ( 7 o 8 anni in più di media rispetto a luoghi dove l’arte la vedi solo nei musei…non è solo il tipo di cibo che si mangia  che la allunga….).

Nelle tue opere c’è tensione, i corpi dei tuoi personaggi hanno un plasticismo nervoso, ma sono sospesi nel tempo, c’è silenzio, sembrano quasi essere usciti da uno “Strage degli innocenti” del Volterra, per essere ospitati nelle ambientazioni metafisiche di De Chirico. Quale formazione visiva ha accompagnato e strutturato il tuo linguaggio così potente?

L’accostamento a Daniele da Volterra mi fa molto onore: è un artista che amo molto, in particolare la deposizione di Trinità dei monti, un capolavoro di impressionante bellezza e complessità che uso spesso in conferenze e lezioni per far capire il concetto di “Composizione” in pittura.

De Chirico è uno dei pochissimi (meno di dieci di sicuro) artisti del ‘900 che amo, ed evidentemente ha avuto un certo influsso sui miei quadri.

Posso tracciare, in breve, un itinerario di fulminazioni e amori pittorici che hanno segnato la mia infanzia e adolescenza, e che ritengo siano delle spie per capire come sono arrivato allo stile che mi caratterizza: sui 5 anni ho scoperto Caravaggio (avevo molti libri d’arte a casa nella campagna dove sono cresciuto) è stata come la folgorazione di San Paolo sulla via di Damasco,  poi è arrivato Grunewald, per un paio di anni ero stregato dal suo chiaroscuro e dalle sue contorsioni, successivamente Pontormo mi ha ammaliato con le sue sofisticazioni cerebrali. Successivamente Michelangelo è diventato la mia stella polare, ma poi ho compreso meglio gli incredibili raggiungimenti di Raffaello e del classicismo in generale, a partire dai greci.

Sei principalmente un pittore tradizionale, la materia la senti nell’impasto dei colori ad olio sulla tavolozza e si avverte, ma non lesini di sperimentare nuove tecniche espressive e nuove tecnologie. La modellazione digitale sembra ormai parte integrante del tuo processo compositivo, qual è il confine di Nicola Verlato nell’utilizzarla come mero strumento per studiare e caratterizzare i protagonisti delle sue opere, e invece il considerarla detonatore per la creazione di iperboli digitali?

Il mio interesse per il digitale è sempre stato funzionale ad una rivitalizzazione della tradizione del classicismo nel nostro tempo.

Nell’82 vidi il film Tron, uno dei primi films dove comparivano intere sequenze realizzate in CGI alcune delle quali renderizzate in wireframe.

Riconobbi immediatamente, stiamo parlando di 40 anni fa, che nonostante i  cinque secoli di distanza che le separavano, quelle immagini erano identiche ai disegni in prospettiva di Piero della Francesca e Paolo Uccello (il calice e i mazzocchi). Da quel momento capii che dovevo assolutamente implementare quelle nuove tecnologie nel mio metodo di lavoro per recuperare e ampliare l’aspetto progettuale razionalista e modellizzante che sta al centro della tradizione classicista occidentale.

Mi ci volle molto tempo per riuscire ad aver accesso a quelle tecnologie (nell’82 si era nella preistoria) ma a partire dagli anni ‘90 riuscii a realizzare, in collaborazione con un amico Veneziano, i primi modelli (inizialmente solo architettonici) da inserire nelle composizioni.

Per me comunque tutto nasce e si risolve nel disegno e nella pittura, queste tecnologie sono esclusivamente strumentali a razionalizzare lo spazio prospettico e luministico  e funzionali ad inserire oggetti complessi altrimenti difficilmente rappresentabili sulle due dimensioni.

Diciamo che le uso come Tintoretto (e praticamente tutti al tempo, compreso Michelangelo costruivano i loro modelli in cera e materiali vari a supporto della loro indagine nelle tre dimensioni) fra lo schizzo iniziale e l’esecuzione vera e propria del dipinto.

Veniamo all’attualità, di cosa pensi ci si debba preoccupare maggiormente, dell’iconoclastia esplicitata o di quella strisciante camuffata da attivismo ecologista, paradossalmente sostenuta dalla stessa associazione mondiale dei musei (ICOM)?

Quella strisciante è molto più pericolosa di quella esplicita, proprio perché la maggior parte delle persone non si accorgono della sua presenza e non riescono a ricondurla al ceppo originario che è quello dell’iconoclastia biblica.

A voler essere radicali su questo argomento anche i musei stessi svolgono un ruolo molto ambiguo nei confronti delle immagini e non mi ha sorpreso che l’ICOM supportasse le organizzazioni ecologiste che imbrattano con materiali vari opere celebri e non.

I musei infatti sono in gran parte costituiti di collezioni private  accumulati nei secoli da potenti famiglie, ma anche da opere provenienti da spoliazioni di spazi pubblici (soprattutto chiese e luoghi sacri). Nel secondo caso è evidente che la funzione del museo non è esclusivamente quella di conservare un’opera d’arte, ma, al contrario, di sottrarla al luogo dal quale essa esercitava il suo potere al massimo grado.

Potrebbero essere molti gli esempi da citare a riguardo, ma basti pensare alle nozze di Cana del Veronese a Louvre (sottratto e mai restituito all’isola di San Giorgio a Venezia) oppure, rimanendo sempre a Venezia, La Pala di San Giobbe del Bellini mai più ricollocata alla omonima Chiesa Veneziana insieme alla “Presentazione al tempio” di Carpaccio: quella chiesa è ancora là ma  gli altari, oggi, sono vuoti.

Il museo quindi, in questi casi, sottrae potere all’opera e soprattutto ai luoghi, alla città e alla comunità che la abita.

Il museo poi, più sottilmente, è anche un congegno di trasformazione del senso dell’arte che, dall’essere il più potente strumento esistente atto a sospendere la cognizione angosciosa del  tempo, viene trasformato nell’illustrazione di una narrazione cronologica che ha come scopo di depotenziare il più possibile il potere anti-temporale dell’arte.

Dipinti esposti con vetro o senza vetro? tornelli e cordoni da rispettare, quanta distanza abbiamo accumulato negli anni a sfavore della fruizione?

Purtroppo in Italia assistiamo ad un godimento sadico da parte delle istituzioni nell’allontanare (adducendo scuse di ogni genere) il pubblico dall’opera e dalla sua materialità, dal essere qui e ora.

Vetri, cornici improbabili, cordoni, allarmi di ogni tipo, trasformano le opere in simulacri di se stesse, in paradossali riproduzioni di se stesse. Pensiamo alle recenti sistemazioni agli Uffizi di opere come Il tondo doni di Michelangelo o la primavera de Botticelli: mettendo da parte l’orribile design da gioielleria di provincia, le opere risultano sempre meno visibili nella loro materialità, mi ritengo fortunatissimo di aver potuto vederle per tutta la mia infanzia come venivano esposte allora, sono stato segnato per sempre da quelle esperienze.

Al contrario, in altri musei frequentatissimi, come la National Gallery a Londra per esempio, il rapporto con le opere è molto più diretto, i filtri sono quasi inesistenti fra osservatore e opera.

A questo punto comincio a sospettare che ciò accada proprio perché il nostro paese è il centro universale della figura dipinta e scolpita da almeno 2500 anni, e che la guerra alle immagini, che già è stata vinta nella maggior parte dei paesi occidentali (Inghilterra inclusa), qui la si stia ancora combattendo, ma con mezzi molto più subdoli.

Uno degli esempi più tragici è il Pantheon a Roma: l’unico esempio pressoché ancora integro di un tempio politeista dell’età classica.

Con il pretesto del covid sono apparsi cordonature e percorsi obbligati “temporanei” (nulla che sottrae libertà è temporaneo) che impedisco di poter godere del suo immenso potere trascendente espresso nello spazio.

Il biglietto a pagamento non è un problema, si dovrebbero chiedere anche più soldi al turismo (ed infatti è gratuito per i cittadini),  il vero problema sono le devastanti code (non esistevano code prima della pandemia per entrare al Pantheon) e i percorsi obbligati che uccidono il godimento di uno dei pochi luoghi rimasti dove poter immergersi totalmente nella mente politeista.

E’ chiaro che il vero obbiettivo è impedire che ciò accada: cancellare il più possibile ogni residuo che possa produrre una esperienza totalizzante del paganesimo antico, che deve essere invece vissuto solo in senso traslato.

Ecco perché i vetri, le cordonature, le code, la sistemazione cronologica sono tutte parte della stessa iconoclastia strisciante che ha come obbiettivo ( non potendo più distruggere direttamente) di allontanare nel tempo il più possibile ciò che è presente nel qui e ora dello spazio.

Ultima domanda, stavolta da parte di mia figlia. Alla mostra “Hostia” ha notato il ripetersi di due elementi nella scena, l’automobile e la porta a rete del gioco del calcio, qual è il loro ruolo nel tragico racconto pasoliniano?

Ringrazia tua figlia della domanda! Pasolini è stato ucciso in un luogo periferico di Roma, a Ostia in una zona molto degradata, in quello che, nel 1975, era un campetto da calcio per cui, per contestualizzare meglio la scena (e per sfruttare quegli elementi in senso compositivo) ho inserito spesso sia la macchina che la rete.

Grazie Nicola, per il tuo impegno narrativo che da anni conduci con immagini ricercate e mai banali, e per aver condiviso questo momento unico di riflessione.

Noi invece, spenta la luce dell’atelier, ci rincontreremo alla prossima storia. Allah maakum!

Giovanni D’Onofrio

Qui di seguito il link per conoscere meglio il lavoro di Nicola: https://www.nicolaverlato.com/

Nda. In Copertina dell’articolo, la foto che ritrae Nicola Verlato è stata scattata da Simona Poncia

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