Chiusi in casa ormai da tempo, la stanchezza comincia a posarsi dapprima sulle spalle e poi sul resto del corpo. Le sento cadere verso il basso mentre scorro le dita sulla tastiera nel digitare queste righe. Si chiama astenia, ma non è questo l’argomento del mio scrivere, tutt’al più il risollevarsi da essa grazie a qualcosa di speciale che possa curare anche l’anima.
Da ex surfer della sei corde ovviamente ho pensato subito alla musica, compagna irrinunciabile, ed il pensiero su cosa consigliarvi m’è parso così subito chiaro quando ho aperto la mail di notifica dell’uscita del nuovo album di una vecchia conoscenza.
Senza perdere tempo decido di contattarlo su Messanger e da lì il rituale meraviglioso del tuffarsi nel passato. Le sale prove dove si suonava, le riviste cult, i negozi dove ascoltavamo quelle che per noi erano note magiche
Lui si chiama Riccardo Prencipe ed il suo progetto musicale Corde Oblique.
Insegnante liceale di storia dell’arte, di Riccardo ricordo le serate assieme con amici comuni quando adolescenti tutti in rigoroso abbigliamento funereo che più dark non si poteva, frequentavamo la Napoli underground di fine anni 90’, quando la scuola metal aveva dedicato le sue attenzioni alle sonorità scandinave spesso generose di innesti folk e ambient, con sperimentazioni di reminiscenze medievali che avrebbero al tempo caratterizzato il sound di band europee divenute non conformi alla scena che andava comunque ad uniformarsi.
Ecco che gruppi come la one man band norvegese Burzum, gli Ulver o gli olandesi The Gatering trovavano spazi atipici assieme ai britannici Anathema in quell’indimenticabili scelta acustica di noi ascoltatori che alternavamo a performance dei nostrani Ataraxia, dei Camerata Mediolanense e degli Argine, i più popolari metal horses.
The moon is a dry bone è il disco che Riccardo ha pubblicato questo aprile in corso per l’etichetta Dark Vinyl Records e distribuito dalla AudioGlobe di Firenze. L’ottava impegnativa produzione compositiva dal 2005 ad oggi, forse la decima se si considerano i due anni antecedenti di militanza con il nome di Lupercalia, che nell’amore per le arti visive trova definizione e centratura del cuore. Basti pensare alla copertina dell’ultimo disco, un’opera dal titolo “Niente può avvenire tra di noi”, del fotografo indonesiano Hardijanto Budiman, ma anche precedenti scelte come i silenziosi requiem in blu di Kenro Izu.
Ho provato allora a fargli qualche domanda diretta. Così per conoscere la persona che è oggi.
Quanto hanno influito sulla tua crescita compositiva gli studi e la ricerca per la storia dell’arte?
Moltissimo. Non avrei mai potuto comporre questo tipo di musica e scrivere questa tipologia di testi senza aver studiato storia dell’arte. Nel corso degli anni questi due aspetti della mia vita sono diventati un tutt’uno. In principio faticavo a stare dietro ad entrambe le cose, soprattutto in via di formazione: università e conservatorio insieme hanno fatto sì che io fossi un recluso pre covid 19, almeno fino al 2007. Poi tutto è venuto da sé.
Ogni tua creazione sembra un concept più complesso della semplice produzione musicale, come nasce e si sviluppa un tuo lavoro?
Come le api raccolgono il miele, così noi prendiamo da ogni cosa la sostanza più dolce. La nascita di un lavoro discografico è un’esigenza e si sviluppa attorno a un dolore o a una gioia solitaria. Ho raggiunto i risultati di cui sono più soddisfatto nel momento in cui ho provato a vivere certe cose in completa solitudine. Oggi, in un mondo di ostinata condivisione, bisogna capire cosa vale la pena condividere e cosa invece bisogna accudire dentro di sé. La vera gioia non ne sente il bisogno.
Sono varie le citazioni culturali che inserisci. Immagino tu abbia tratto in qualche modo ispirazione dalle parole dei vari autori e dalla loro vita?
I brani che scrivo spesso si intrecciano con le letture che faccio, con le esperienze di vita, e tutto si lega in qualcosa che è il disco. Ecco perché credo che l’esperienza dell’ascolto di un disco con booklet alla mano e grafica e testi con relative citazioni, resti insostituibile.
Tra pittura e fotografia sembra tu prediliga quest’ultima per le copertine dei tuoi dischi. E’ una scelta di resa estetica, più contemporanea, oppure per un interesse maggiore verso questo linguaggio artistico?
Conosco molti bravi pittori, ma ad oggi non ho mai trovato ancora nulla che si addica bene ad un mio lavoro. Unica eccezione fu nel 2011 quando collaborammo non con un pittore, ma con un’illustratrice che ho in grande stima. Martina Troise seppe interpretare meravigliosamente il concept di uno dei nostri dischi (A hail of bitter almonds). Credo inoltre (non me ne vogliano i pittori) che la fotografia sia l’arte che, ad oggi, meglio rappresenti lo Zeitgeist del nostro tempo. Semplicemente perché ha un passato meno ingombrante alle proprie spalle, non ha una produzione sterminata di capolavori a cui rendere conto. Per chi fa il pittore, nel senso più tradizionale del termine, il discorso è un po’ più ostico.
Cosa mi dici della copertina di quest’ultimo album?
“la distanza, il senso di gravità, l’incomunicabilità tra le due figure le rende simili a due sirene scure in un mare desertico”, appunto un “osso secco”. Mi sono reso conto che l’opera sposava perfettamente il significato e le finalità del titolo. Mi piace anche il fatto che le due figure siano due asiatiche perché noi abbiamo da sempre un legame silenzioso con la Cina
Insomma, con Riccardo si potrebbe dialogare all’infinito toccando riferimenti al poeta italiano del “male oscuro” Dino Campana, quanto alla civiltà classica o ai pittori olandesi del 1600. Sarebbero tantissime altre le domande da porgergli, ma lascio a voi la possibilità di scoprirlo pian piano, iniziando dall’ascolto e dalla visione dell’intrigante video di “The Moon is a dry bone”
Noi, ci ritroviamo alla prossima storia.
Giovanni D’Onofrio
Qui di seguito il link per seguire questo fantastico progetto musicale: https://www.cordeoblique.com