Nella vita ha impersonato tante maschere spesso in contrapposizione tra loro, il buono, il cattivo, il mercenario, l’idealista; per molti è una presenza di un certo peso nel mondo dell’arte, per altri un personaggio scomodo vociferando degli anni 70’/80’, sta di fatto che la sua vita alla Steve McQuinn è testimoniata romanzata dalla penna di Pier Paolo Giannubilo (Il Risolutore, ed. Rizzoli) e un film per condividerla direi che ci starebbe proprio bene. Una spy story che attraversa dall’Europa al MedioOriente, tra poesie del deserto e fucili ribelli.
Lui è Gian Ruggero Manzoni, alle sue spalle un cognome importante che lo imparenta con la storia d’Italia, pronipote del celebre Alessandro, scrittore milanese al quale si deve idealmente l’unificazione della lingua italiana, e con l’anticipatore dell’arte concettuale, il cugino Piero.
Teorico d’arte, pittore, poeta, drammaturgo, scrittore, scultore, pensatore. Un passato speso tra sodalizi creativi e intensi rapporti di amicizia con personaggi del calibro di Omar Galliani, Keith Haring, Tommaso Cascella, Enzo Cucchi, Mimmo Paladino, Lucio Amelio, Maurizio Calvesi, De Dominicis, Mario Schifano, Beuys, Baselitz, Penck, Jim Dine, e tanti altri da renderlo emblematico riferimento vivente indispensabile da consultare per saperne sui protagonisti della storia dell’arte contemporanea.
Anni fa però non sapevo chi fosse Gian Ruggero, il professore, per me era semplicemente il fondatore e garbato amministratore del gruppo Facebook A.L.I, (che poi scoprirò essere l’estensione digitale di una sua precedente rivista di settore) una community da più di 14.000 iscritti se non ricordo male, dove si dialogava di arti, letteratura, musica, eventi e quant’altro accorresse a rendere fertile il web in un sano utilizzo dei social media. Poi un cambio di rotta interna, la propensione allo storicismo del 900’ e da lì il colpo di fulmine.
Ricordo le aperte discussioni sulla seconda guerra mondiale, tra esperti e semplici appassionati come me, lo stimolo alla ricerca e la voglia di leggere aneddoti vissuti o tramandati di quella che fu l’Italia del prima e del dopo guerra, la politica e l’attivismo intellettuale.
Ma venne il giorno della triste chiusura di quel magico punto di ritrovo, quasi a presagire questo distacco sociale al quale ora siamo obbligati.
Da quel momento GianRuggero non mi ha mai negato il confronto, pubblico o privato che fosse, e così in dichiarata stima l’ho intervistato con la curiosità di indagarne aspetti appartenenti ad un animo un po’ dark, un po’ rock, per voi e per me.
La tua pittura neoespressionista sembra molto autoreferenziale, cupa nell’esorcizzare demoni di un passato inconsolabile. Di questa, tra l’aggressività auto fagocitante, cannibalistica, che selvaggiamente la contraddistingue, ci sono alcune opere che invece appaiono redenti o in cerca di redenzione, come ad esempio “Angelo” del 2002. Ti ritrovi in questa lettura e se condividi, quale dipinto ti ha permesso di espiare il tuo percorso, o almeno lenire le ferite dell’anima?
Molto vero ciò che hai detto. Tanti sono i fantasmi del passato che ancora vivono in me. In quello che è pensabile, ma spesso non direttamente osservabile, perché nascosto nel nostro inconscio, si possono individuare diverse categorie di figure-eventi, distinguibili in base alla loro natura. Vi sono innanzitutto i sogni, le visioni oniriche. Vi sono poi entità astratte legate al tempo, il ricordo o la memoria. Vi sono entità che abitano altre dimensioni, oppure paesaggi immaginari, che si sviluppano, unicamente, nella bidimensionalità, e così via. Vi è poi qualcosa di percepibile, ma non visibile, che permea lo spazio raffigurato a livello sensibile, come il profumo, o a livello mentale, come la malinconia. Vi sono anche entità mitologiche o fantastiche, oppure legate alla religione professata o ad altre religioni o filosofie mistiche, tra cui lo sciamanesimo. Quindi il magico, più o meno primario, la citazione, il simbolo. Il tutto svolto, almeno nel mio caso, con semplicità oserei fumettistica e grande aggressività, inoltre sfruttando, per lo più, colori primari non sfumati. A tratti, anche squarci di luce, decisamente portata da angeli. Il quadro, di altro artista, che maggiormente mi ha aperto questi corridoi di grazia? “Autoritratto con pelliccia” di Albrecht Dürer, un’opera datata 1500, un olio su tavola di cm 67 × 49 oggi custodito alla Alte Pinakothek di Monaco di Baviera. Quando per la prima volta lo vidi venni magnetizzato da quello sguardo ieratico, da quel volto da Cristo, da quella mano diafana che tiene il lembo dell’abito, ma anche poggiata sul cuore del pittore autorappresentatosi. Magnifico, come magnifica e intensa la “melanconia” del grande maestro tedesco, e il suo il cavaliere, con la morte e il diavolo.
Cosa pensi della scena artistica contemporanea, cosa trovi di diverso dagli anni del tuo inizio di militanza e cosa a tuo avviso in questo tempo è degno di attenzione?
Viviamo in un periodo freddo. La differenza da quando io iniziai a fare arte a oggi sta nella temperatura. C’è troppo calcolo, troppo opportunismo, troppo denaro che gira, troppa competizione, troppa ipocrisia, quindi ben poca sincerità, ben poco ideale, ben poco romanticismo. Molto l’artificio, molti i sopravvalutati, molti i bluff, e sempre meno cultura per dare spazio al fare impresa, come si dice in ambito aziendale. Troppa apparenza, meno sostanza. Infine l’arte è al traino del Sistema capital-liberistico imperante, della globalizzazione economica forzata in atto, perciò non si pone quale “avanguardia”, come punto di rottura, e, di seguito, come un possibile re-inizio, bensì è succube o, meglio, le sta bene essere succube del come sta girando, male, il mondo, e lo rappresenta, in tutta la sua sterilità. E per arte intendo gli artisti… infatti l’arte, di per sé, è come Dio, è là, opera immutabile seppure in continuo movimento. Dove rivolgere l’attenzione? Di nuovo a quel “là”. Cioè elevare lo sguardo, puntarlo verso il cielo, verso il cosmo, dove è possibile ritrovare la nostra origine. Da sempre io mi sono mosso così, fregandomene di tutto ciò che risulta effimero… successo compreso. Tutto quello che mi è giunto è stato merito del lavoro svolto non del questuare, del perorare, dell’inchinarmi, del compiacere, del ruffianare. Si vive solo una volta e fare arte, seriamente, ti insegna, anche, il cosa sia la dignità nei confronti di te stesso e nel riconoscerla in chi meritevole, in chi onorabile. L’arte è anche codice di vita. Non scordiamo mai questo.
Questo tuo eclettismo vivente è la cosa che più affascina della tua immagine poliedrica e non solo per operato professionale. Ma Gian Ruggero Manzoni oggi chi è?
Di certo un essere umano giunto alla maturità con ancora l’animo di un ragazzino, anche se non parrebbe. Quindi, consciamente o inconsciamente, il creatore della sua realtà, oserei il re del suo regno. Un essere umano che non ha paura di morire, perché già morto infinite volte, quindi non avente più un ego da difendere, inoltre che non deve più dimostrare alcunché né a se stesso né agli altri, ben sapendo che l’esistenza non si risolve nel dover dimostrare un qualcosa a un qualcuno, bensì nel cercare, il più possibile, di cogliere ciò che di bello già esiste o ciò che di bello altri uomini hanno cercato di fare. Quindi sapendo che il vero avversario è sempre e solo una parte di te, così che quando Gian Ruggero Manzoni lotta con l’esterno sa benissimo che, se anche ferito a morte, infine sarà sua la vittoria. Poi un essere umano che continua a non piegarsi al bisogno, ma accetta di lavorare unicamente se la sua mansione lo appassiona, infatti quando fa, fa per realizzare un’utopia, non per rotolarsi nella comune sopravvivenza. Perciò un uomo che non mendica, accontentandosi di quello che passa il cielo, che non si omologa, che non si codifica. Infine Gian Ruggero Manzoni è quello che è sempre stato, cioè un essere umano libero.
Provenendo da una formazione da tatuatore, non sono potuto restare indifferente ai tuoi disegni sulla pelle. Un old school per nulla commerciale. Mi ricordano i tatuaggi lauretani così come qualcosa di più viscerale come quelli di appartenenza a fratellanze azioniste e gruppi scelti. Cosa puoi dirmi di loro, che ci raccontano?
Ho sulla pelle tatuata l’intera mia vita, passo dopo passo, ferita dopo ferita, rinascita dopo rinascita, come, appunto, un pellegrinaggio in cui ogni immagine risulta quale Stazione della Via Crucis. Sì, ciò che ho disegnato sul corpo oltre a testimoniare una tappa indica, anche, il mio gruppo di appartenenza, la mia tribù. L’insieme traccia una sorta di mappa stellare, un percorso nel cosmo utile per ritrovare la strada di casa. Nei militari ero un fante di marina, quindi esiste una dimestichezza col tracciare rotte e azionistiche regole di ingaggio. Ci riconosciamo fra noi, il tatuaggio serve a riconoscerci fra noi, e quel noi indica chi, seppure nel tormento, ha cercato la via dell’espiazione quindi della redenzione. E già il tentare è molto, quando si è toccato il fondo. Mi hanno tatuato in tanti, in tanti luoghi del pianeta, ma i più importanti me li ha battuti un amico della mia città che, da sempre, mi conosce e sa e ha saputo in cosa stava mettendo mano. Il tatuatore è un artista, deve sempre avere un gran rispetto per quello in cui sta mettendo mano, altrimenti il crogiolo alchemico rischia di esplodergli in volto. Necessita sacralità quando tatui chi ha vissuto veramente, altro è il tatuare chi pensa di darsi vita tramite il tatuaggio stesso. Il tatuaggio di chi ha nel vero vissuto è già tatuato sulla sua pelle, ancor prima che gli aghi la forino, e ciò, il bravo tatuatore, lo sa.
Ezra Pound o Josè Saramago?
Beh, entrambi. Due giganti, diversissimi fra loro, ma due grandi. Logico che come poeta, considerandomi, io, in primo luogo, un poeta, ami più Pound di Saramago, ma geniale anche il secondo. “Memoriale del convento” … “Memorial do convento” … è stato, per me, un libro che mi ha segnato il cammino.
Spesso narri di riunioni familiari che per l’importanza del tuo cognome danno il senso di una nobiltà d’altri tempi. E’ un’eredità che ti sta scomoda oppure oggi più di ieri ne convivi con consapevolezza e perché no anche con orgoglio?
Sono sempre stato orgoglioso del cognome che porto. Ma anche se non mi chiamassi Manzoni ma Casadio o Esposito andrei fiero di quel che sono. Mai rinnegare i propri natali, le proprie radici, anche se partono da un orfanotrofio. Il riconoscere, sempre con umiltà, il passato che hai o che hanno avuto i tuoi avi, se avi ne hai avuto, o, meglio, se conosci la vita di chi, del tuo sangue, ti ha preceduto, aiuta il futuro che andrai a tracciarti. Reputo che sia sempre importante sapere da dove si proviene, anche se si scopre che sei figlio di N.N. Quando sai, quel sapere ti scherma. Ogni sapere ti scherma, ma, nel contempo, apre porte. Mai, e lo ripeto, rinnegare la propria provenienza o raccontare balle sulla stessa, per vergogna, per pudore o per altro. Si sia quel che si è, sempre. Io ho avuto la fortuna, sotto molti punti di vista, di essere nato in una certa famiglia quindi mi reputo, sotto molti aspetti, un privilegiato, ma anche chi non fortunato come me, accettando il suo background carnale, spalanca il suo essere al mondo e va con maggiore consapevolezza. Io continuo a pormi come un Manzoni, è regola della mia famiglia. Tutti noi Manzoni ci atteniamo a tale regola.
Un’ultima curiosità, come ho letto scritto da Errico Buonanno il tuo avo Manzoni la peste non l’aveva vista, ma da studioso ne aveva sciorinato documenti prima di trasferirla nell’immaginario narrativo dei Promessi Sposi per descrivere la follia e la psicosi sociale da essa derivate, tu che ora sei come noi immerso in questa esperienza surreale del distanziamento sociale e della contumacia, quanto pensi che avesse ragione nel risponderle con la fede e la cultura, che come diceva non evitano i guai ma insegnano come affrontarli? Si può restare veramente umani quando il mondo impazzisce?
Mio padre credeva nella Divina Provvidenza, anch’essa di manzoniana memoria, ed io seguo le sue tracce. Certo che in tempo di peste si può rimanere umani… forse che le risposte che ti ho dato siano di un alieno? Più difficile è restare umani in tempi in guerra. In guerra non contano né la cultura né la fede, conta altro, ma mi fermo qui; la guerra è ancora capitolo molto dolente nella mia vita.
Se il cugino Piero ha immaginato il globo terrestre reggersi su un sostegno capovolgendone lo sguardo, il “Socle du Monde”, si può affermare dopo averla ascoltata (letta) tutta, che GianRuggero ha reso senza ombra di dubbio opera d’arte l’emozionante avventura senza limiti del vivere.
Ringrazierò sempre GianRuggero per avermi consegnato una parte di se, trovando le parole per concedersi con l’energia dovuta dei giganti.
Noi, calato il sipario, come di abitudine ormai ci diamo appuntamento alla prossima storia
Giovanni D’Onofrio
Qui di seguito il link per saperne di più: https://www.gianruggeromanzoni.it/